VISIONI DELLO STRUTTURALISMO: Barthes, Deleuze, Derrida
Università del Salento
Lecce, Italia
DOI: https://doi.org/10.22409/mov.v7i12.42410
Un giorno, nel bosco, qualcuno lì fermo a guardarlo dipingere, gli domanda ansiosamente: “Ma dove vedete, Monsieur, quel bell’albero che mettete qui?” Corot si toglie la pipa di bocca e senza voltarsi indica col cannello una quercia dietro di lui (VALÉRY, 1934, p. 139).
RIASSUNTO
Indipendentemente da distinzioni di tipo manualistico tra strutturalismo e post-strutturalismo e dalla determinazione della appartenenza o non appartenenza a ciò che generalmente, soprattutto con riferimento alla Francia, è stato indicato come “strutturalismo”, è particolarmente interessante considerare la posizione che direttamente o indirettamente, più che nei confronti dello strutturalismo, nei confronti di concetti, temi, strumenti e anche termini, solitamente ritenuti “strutturalisti”, hanno assunto tre autori che, pur impiegandoli abitualmente, si sono distinti, anche tra loro, per averne fatto un uso che ha piegato la critica del “soggetto” alla riflessione sulla differenza, sull’alterità, sulla irripetibilità e anche sulla singolarità: Barthes, Deleuze e Derrida. C’è negli autori indicati tanto la consapevolezza dell’impossibilità del ritorno a posizioni che potremmo indicare provvisoriamente e sommariamente come “pre-strutturaliste”, quanto, al tempo stesso, un procedere oltre (anche questo irreversibile), rispetto a ciò che viene etichettato come “strutturalismo”.
Parole chiavi: Strutturalismo. Barthes. Deleuze. Derrida.
VIEWS OF STRUCTURALISM: Barthes, Deleuze, Derrida
ABSTRACT
Independently from distinctions of the manualistic type between structuralism and post-structuralism and from whether a position belongs or not to what has generally been indicated as “structuralism” with special reference to France, the position taken by Barthes, Deleuze e Derrida, whether directly or indirectly, is particularly interesting. More than on structuralims, the focus in this paper is on the concepts, themes, instruments and terms customarily described as “structuralist” as used by the three authors mentioned. All three have influenced the critique of the “subject” in the direction of reflection on the concept of difference, otherness, unrepeatability and singularity. Each thematize the impossibility of return to “prestructuralist” positions as much as the need to proceed beyond what is tagged “structuralism”.
Key-words: Structuralism. Barthes. Deleuze. Derrida.
VISÕES DO ESTRUTURALISMO: Barthes, Deleuze, Derrida
RESUMO
Independentemente de distinções de tipo manualístico entre estruturalismo e pós-estruturalismo, e pela determinação da pertença ou não pertença a isso que, geralmente, sobretudo em referência à França, foi indicado como “estruturalismo”, é particularmente interessante considerar a posição que diretamente ou indiretamente, assumiram três autores: Barthes, Deleuze e Derrida. Mais que em relação ao estruturalismo, o foco deste artigo está nos conceitos, temas, instrumentos e também termos, usualmente tidos como “estruturalistas”, que, ainda que sendo empregados habitualmente, sejam distintos, também entre eles, por haverem feito um uso que dobrou a crítica do “sujeito” à reflexão sobre a diferença, sobre a alteridade, sobre a irrepetibilidade e também sobre a singularidade. Há, nos autores indicados, tanto a consciência da impossibilidade de retorno a posições que podemos indicar provisória e sumariamente como “pré-estruturalistas”, quanto, ao mesmo tempo, um outro proceder (também esse irreversível), a respeito a isso que é rotulado como “estruturalismo”.
Palavras-chave: Estruturalismo. Barthes. Deleuze. Derrida.
Premessa
Indipendentemente da distinzioni di tipo manualistico tra strutturalismo e post-strutturalismo e dalla determinazione della appartenenza o non appartenenza a ciò che generalmente, soprattutto con riferimento alla Francia, è stato indicato come “strutturalismo”, è particolarmente interessante considerare la posizione che direttamente o indirettamente, più che nei confronti dello strutturalismo, nei confronti di concetti, temi, strumenti e anche termini, solitamente ritenuti “strutturalisti”, hanno assunto tre autori che, pur impiegandoli abitualmente, si sono distinti, anche tra loro, per averne fatto un uso che ha piegato la critica del “soggetto” alla riflessione sulla differenza, sull’alterità, sulla irripetibilità e anche sulla singolarità: Roland Barthes, Gilles Deleuze e Jacques Derrida.
Lo spostamento dal significato al significare, della significazione alla significatività, l’assunzione della differenza in termini di differimento, l’attenzione verso ciò che Barthes chiama il “terzo senso”, la critica del fonocentrismo attraverso la distinzione della scrittura dalla trascrizione, comportano una nuova proposta dell’indagine sul segno, sulla parola, sul testo ma anche sul “vivere insieme”, che da una parte contribuisce all’ampliamento ma anche all’“aggiustamento” della prospettiva della semiotica, e dall’altra sollecita la riconsiderazione di orientamenti e posizioni “criptosemiotiche” che sul rinvio, sulla differenza non indifferente, sulla critica della totalità e della sintesi, sulla apertura e sulla interrelazione, sull’alterità anziché sulla identità hanno insistito.
C’è negli autori indicati tanto la consapevolezza dell’impossibilità del ritorno a posizioni che potremmo indicare provvisoriamente e sommariamente come “pre-strutturaliste” e connotarle come incentrate sul “cogito”, quanto, al tempo stesso, un procedere oltre (anche questo irreversibile), ciascuno secondo una visione propria e singolare, rispetto a ciò che – secondo quelle ripartizioni e classificazioni tutt’altro che “strutturaliste” perché basate sull’idea della “iscrizione” per scelta personale, della preferenza, dell’adesione, del “voto” da parte di questo o di quest’altro “soggetto” – viene etichettato come “strutturalismo”.
1. Criteri di riconoscimento dello strutturalismo secondo Deleuze
In à quoi reconnaît-on le structuralisme? (DELEUZE, 1967) – Deleuze più che della definizione dello strutturalismo (che risponde alla domanda ontologico-ipostatizzante “che cos’è?”), si occupa dei criteri del suo riconoscimento. Questi “criteri” sono stabiliti in base ad alcune nozioni ricorrenti, malgrado la diversità dei campi di esplorazione e le “découvertes et créations singulières”, in quel “système d’échos” individuabile tra autori tra loro indipendenti, quali Lévi-Strauss, Lacan, Foucault, Althusser, Barthes… (v. ivi, p. 214, 243).
È giusto porre la linguistica all’origine dello strutturalismo: non solo Saussure, anche la scuola di Mosca, la scuola di Praga. E se lo strutturalismo si estende in seguito ad altri campi, questa volta non si tratta di analogia: non è semplicemente per instaurare metodi “equivalenti” a quelli che dapprima funzionato nell’analisi del linguaggio. In realtà non c’è struttura se non di ciò che è linguaggio [...] (ivi, p. 214-215).
Ciò che qui mi interessa è evidenziare che queste nozioni che Deleuze individua sono quelle che hanno reso e rendono possibile uno strutturalismo non “generico” e neppure trasformato da “metodologico” in “ontologico”1, Indicherei quest’altro strutturalismo come “strutturalismo critico”2. Si tratta dello strutturalismo che si è andato liberando da forme di sclerosi ontologista, certamente riscontrabili nei presupposti e/o nelle conclusioni di qualche suo orientamento, ma altrettanto certamente non assumibili come costituzionali, genetiche o croniche.
Quest’altro strutturalismo, che a mi sembra ravvisabile in Barthes, Derrida e nello stesso Deleuze, risulta refrattario nei confronti dell’“inganno delle costanti”, degli schemi rigidi, del mito dello schema degli schemi. Esso sposta l’attenzione dalla nozione ingenua di segno, come unità a sé stante, alla rete segnica di molteplici e mutevoli relazioni focalizzando il testo, inteso come particolare porzione di tale rete, secondo due aspetti che caratterizzano la struttura: la posizione e la differenza.
Presentate senza seguire l’ordine espositivo di Deleuze le nozioni o parole chiave sono le seguenti
– quella di grado zero, per cominciare dalla meno trattata e di cui tuttavia egli dice con tono perentorio (DELEUZE, 1967, p. 235): “Non c’è strutturalismo senza questo grado zero: Sollers e Faye amano evocare la macchia cieca [la tache aveugle] per designare questo punto sempre mobile che provoca l’accecamento, ma a partire dalla quale la scrittura diviene possibile […]”.
– il simbolico, come “terza nozione”, rispetto al “reale” e all’“immaginario” (cfr. Ivi, p. 216). Simbolico, possiamo precisare, nell’accezione freudiana piuttosto che in quella di Cassirer (di cui va qui ricordato “Lo strutturalismo nella linguistica”, 1945). Il “simbolico” sta ad indicare una fuoriuscita, un movimento oltre l’ordine del reale e dell’immaginario (DELEUZE, 1967, p. 215-217). Non meno del ricorso al reale, anche l’appello all’immaginario (Bachelard, Jung) è fuori gioco (cfr. Ivi, p. 228). Si esce anche dalle contrapposizioni reale/fittizio, reale/possibile: nessuna attualità presente o passata nella struttura. Essa è un “non attuale” da cui l’attuale dipende. In questo senso è “virtuale”, con una sua realtà distinta da qualsiasi realtà attuale, con una sua idealità distinta da qualsiasi immagine possibile o idea astratta; è “ideale senza essere astratta” (ivi, p. 225).
– la struttura, ovviamente, ma ciò che qui mi interessa circa questa nozione sono le nozioni escluse in quanto fuorvianti (cfr. Ivi, p. 217-218): forma (Gestalt), figura, essenza, rappresentazione. Escluse sono anche le contrapposizioni, come senso proprio/senso figurato, intelligibilità/apparenza, reale/immaginario, designazione estrinseca/significato intrinseco. Quindi un’altra nozione esclusa è opposizione: differenze, differenziazioni, scarti, rinvii, anziché opposizioni; differenza posizionale anziché differenza opposizionale (ivi, p. 229).
– posizione, ma non fissa né identificabile con i luoghi del discorso del reale e dell’immaginario, posizione in senso topologico e relazionale, nel senso di una “topologia trascendentale”, fondante la “psicologia dei ‘soggetti’” e le relazioni tra gli individui con i loro ruoli, generi, appartenenze, identità (cfr. ibid.). Proprio perché non indica nulla di fisso, originario, riferito a una origine, a una genealogia, la nozione di “posizione” o di “posto” è inscindibilmente collegata con
– mobilità, spostamento (v. Ivi, p. 218-219, 233-235). Ciò che si cerca “è sempre spostato. Ha per proprietà di non essere mai dove lo si cerca, ma in compenso di essere trovato dove non è” (ivi, p. 234). Alla non identificazione tramite assegnazione, riempimento di un posto, collocazione, appartenenza, genealogia, genere, è collegata la critica del soggetto, il quale ha proprio in tutto ciò le basi, le giustificazioni, gli appigli della propria identità.
– soggetto: Lo strutturalismo “contesta l’identità del soggetto, lo dissipa, lo fa passare di posto in posto, soggetto sempre nomade, fatto di individuazioni, ma impersonali, o di singolarità, ma preindividuali” (ivi, p. 240, corsivo mio). Il soggetto dipende da un complesso di differenze e differimenti, la sua costituzione stessa consiste nel suo dividersi e differenziarsi.
– la nozione di senso esorbitante, come eccesso, come “troppo senso” e comprensiva del non-senso (si fa riferimento a Carroll; cfr. Ivi, p. 220, 236). La ritroviamo in Barthes come senso ottuso (BARTHES, 1982), distinto da ovvio, e anche da acuto, nell’accezione della geometria e in quella dispregiativa. Non è isolata questa rivalutazione del negativo: riguarda anche superficiale, leggero, equivoco e la messa in discussione di valori consacrati dall’ordine del discorso, come umanesimo.
– la nozione di relazione, che si sposta dal suo significato ovvio di rapporto tra termini già costituiti fuori di essa a quello di rapporto costitutivo dei termini in cui consiste. Deleuze (DELEUZE, 1967, p. 221-222) distingue tre tipi di relazione: reale, i cui i termini sono già specificati e in questo senso reali, per es. 3+2; immaginaria in cui i termini non sono specificati ma devono avere un valore determinato, come in x2+y2 – R2 = o; e infine quella simbolica, o strutturale in cui i termini sono in un rapporto differenziale come in dx su dy = x su y, e si specificano reciprocamente (cfr. Ivi, p. 221-222). Deleuze. per questo terzo caso, non si limita a dare un esempio tratto dalla matematica. Aggiunge che “l’origine matematica dello strutturalismo” va ricercata nel calcolo differenziale, liberato, come in Weirstrass, dal riferimento all’infinitamente piccolo e integrato in una pura logica di relazioni (ivi, p. 222). Deleuze non poteva fare riferimento, a questo proposito ai Manoscritti matematici di Marx (1968), che, criticando la fase “mistica”, “metafisica” del calcolo differenziale a partire da D’Alembert e da cui non è esente lo stesso Hegel, perviene autonomamente alle stesse conclusioni di Weirstrass. Probabilmente Deleuze avrebbe considerato con interesse la possibilità di collocare anche Marx all’“origine matematica dello strutturalismo”, ma, a parte ciò, testi di Marx come questo generalmente ignorati avrebbero forse potuto contribuire, nello strutturalismo, a evitarne o rivederne interpretazioni falsate.
– singolarità e singolare (cfr. DELEUZE, 1967, p. 222-224): alla posizione, al posto, alla determinazione reciproca di rapporti differenziali (différentiels) corrispondono singolarità, singolarità di valore, di posizione spazio-temporale, che le caratterizzano e le rendono non intercambiabili. Per tali singolarità, alla metafora del gioco degli scacchi, Deleuze preferisce la formula, “poetica e teatrale”, “un coup de dés” (ivi, p. 221). “La nozione capitale di singolarità, presa alla lettera, sembra appartenere a tutti domini in cui c’è struttura”. E la formula un colpo di dadi “rinvia alle singolarità rappresentate dai punti brillanti sulle facce dei dadi” (ivi, p. 222).
– rinvio di una relazione di singolarità ad un’altra, non perché la riproduca, la rifletta o sia assemblabile con essa. Questo rinvio non ne relativizza l’alterità. Esso non è per analogia. Deleuze parla di “omologia” (ivi, p. 230). In ogni caso, si tratta di somiglianza che non è per identità, e quindi per cancellazione delle differenze, come nel concetto, ma di somiglianza di alterità irriducibili, come nella metafora. In questo confronto tra differenze e tra relazioni di differenze non esistono regole generali, e si tratta di “vera creazione”, “iniziativa”, “scoperta non esente da rischi”, ma non di immaginazione, di “identificazione immaginaria tra termini” (ivi, p. 230-231). Anche qui uno spostamento quindi, come avviene nella metafora e nella metonimia, ma senza riduzione ad esse a figure dell’immaginazione (cfr. Ivi, p. 232). La nozione di figura è esclusa; tuttavia della metafora e della metonimia si tiene ampiamente conto, perché anch’esse implicano, e quindi esemplificano, spostamenti fra serie e termini lasciati nella loro singolarità e alterità (cfr. Ivi, p. 217-218).
– La “differenza” e, con essa, la distinzione tra “differenziale”, différentiel/le (la struttura) e “differenziante”, différentiateur/trice (il suo effetto). Il virtuale è, al tempo stesso, indifférencié e completamente différentié. Attualizzarsi equivale a se différencier nello spazio e nel tempo. Ogni differenciation è attualizzazione, sicché risulta un duplice aspetto della differenza: différence e différentiation – indicata con différent/ciation (v. Ivi, p. 226-227; v. anche DELEUZE, 1968, p. 358). La differenza non esclude la ripetizione anzi se ne avvale (v. DELEUZE, 1968, p. 337-388). Fra gli esempi quello del ritornello, a cui è dedicata un’intera sezione di Millepiani (DELEUZE & GUATTARI, 1980).
– assenza di strutture ultime, ivi comprese: quelle della linguistica (nessuna applicazione per analogia dei metodi e delle categorie prese in prestito da essa, operazione propria di una visione glottocentrica, fonocentrica); la “struttura economica” (“che non esiste mai pura ma ricoperta dalle relazioni giuridiche, politiche, ideologiche”), le “strutture sociali etnografiche”, “malgrado certe pagine un po’ precipitose di Lévi- Strauss” (DELEUZE,1967, p. 228 e 239).
– la nozione di strutturalismo, in conclusione. Proprio in coerenza con la critica della nozione di identità, di identificazione, di individuazione, Deleuze (ivi: 237), prima di arrivare alla conclusione del testo, già avverte che “è bene che la domanda ‘da che cosa si riconosce lo strutturalismo’ conduca all’affermazione di qualcosa che non è riconoscibile o identificabile”
2. Uno strutturalismo riconoscibile come “critico”
Ho accennato all’importanza, anche necessità (già segnalata da Eco (1975, p. 283), del passaggio dalla nozione di segno come unità astratta, e da quelle connesse di codice e di messaggio, al testo, come porzione della rete segnica.
Barthes in “Il terzo senso” (BARTHES,1982, p. 42-45) propone appunto il passaggio, per lui irreversibile, dal livello informativo della semiotica della comunicazione o del messaggio e da quello simbolico (nell’accezione di DELEUZE, 1967) della semiotica della significazione (BARTHES, 1964) al livello “rischioso” del “terzo senso”, quello della significanza, che conduce, “attraverso la via aperta da Kristeva, che ha proposto il termine” (BARTHES, 1982, p. 44) a una semiotica del testo. Ebbene, in una semiotica così orientata sono ritrovabili e risultano avvalorate tutte le nozioni chiave sopra individuate nei “criteri di riconoscibilità dello strutturalismo”. E ciò soprattutto se si considera il testo non semplicemente nelle ma specificamente attraverso le sue espressioni artistiche, letterarie, pittoriche, fotografiche, cinematografiche, ecc.3 Considerato in questo senso e in questa prospettiva, il testo è scrittura che non lascia messaggi, non rilascia dichiarazioni, – “passo senza orma” (pas sans pas) direbbe Derrida (1978: 16). Esso non è costretto da scelte oppositive – significato/significante, figura/sfondo, forma/contenuto, interno/esterno, figurativo/non figurativo (v. DELEUZE, 1981).
“Il terzo livello del senso”, è proprio della “scrittura” distinta dalla “trascrizione”, della “scrittura intransitiva” dello “scrittore” distinto dagli “scriventi”, della scrittura come capacità di “significanza” che non è limitata al segno scritto. Barthes (1988) infatti ne parla riferendosi ad alcuni fotogrammi di Ejzenštejn.
La scrittura non è il parlato, e questa separazione ha ricevuto negli ultimi anni una consacrazione teorica; ma non è neppure lo scritto, la trascrizione; scrivere non è trascrivere [corsivo nostro] (BARTHES, 1986, p. 6).
Sul rapporto tra il testo artistico e la comunicazione-informazione si interroga Deleuze (2002, p. 263, 265-66). Comunicare un’informazione significa “far circolare una parola d’ordine […]. Il che equivale a dire che l’informazione è proprio il sistema del controllo. Che rapporto c’è allora tra l’opera d’arte e la comunicazione? Nessuno. In compenso, osserva Deleuze, c’è una forte affinità tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza”, e solo in quanto atto di resistenza “essa ha qualcosa a che fare con l’informazione e con la comunicazione”: e cita Malraux: “l’arte è l’unica cosa che resiste alla morte”.
Il senso della significanza richiede uno spostamento dall’angusto tempo-spazio della contemporaneità a un tempo-spazio altro4, incomparabile con l’attuale e con suoi interessi, per rivivere in un “tempo grande” (Bachtin) e secondo un’“esperienza grande” – in questo senso “resistenza alla morte”, ma anche resistenza all’immiserimento e al degrado della vita.
“La via aperta da Kristeva” (Barthes) passa anche attraverso Bachtin (che Kristeva ha contribuito a far conoscere in Francia). Bachtin (in “Sui generi di discorso”, 1952-53, in: BACHTIN, 1979: 245-290) distingue tra generi e testi primari o semplici o diretti (del discorso – e dello sguardo, potremmo aggiungere – diretto, oggettivo e oggettivante) e generi e testi secondari o complessi (o della parola in ascolto e della visione eccedente e disoggettivante). I primi sono i generi e i testi ordinari, i secondi sono i generi e i testi artistici, i quali raffigurano, secondo un’eccedenza di visione che fuoriesce dalla rappresentazione i testi semplici, ordinari, e possono quindi rendere conto della loro struttura.
Derrida, in Il sogno di Benjamin (DERRIDA, 2002a, p. 50), fa notare l’importanza, dell’interesse per la letteratura come per le altre arti (pittura, musica, cinema) per il decentramento che esse possono produrre nella filosofia, nelle scienze umane e nel complessivo mondo culturale.
Nella riflessione sul cinema (1989), dove trovano impiego categorie sia bachtiniane sia di matrice peirciana, Deleuze considera la portata artistica del discorso indiretto libero, evidenziata da Bachtin e Vološinov, e la sua possibilità di trasposizione nel testo filmico, ottenendo ciò che Pasolini chiama “soggettiva libero indiretta”, quale punto di incontro non solo di piani-sequenza diversi, ma anche di piani diversi per visione e valore: quotidiano e fantastico, prosaico e poetico, triviale e nobile.
La domanda che si pone è questa, come è teoricamente spiegabile e praticamente possibile, nel cinema, la “lingua della poesia”? […] Trasformerò dunque momentaneamente la domanda “È possibile nel cinema una ‘lingua della poesia’?”, nella domanda: “È possibile nel cinema la tecnica del discorso libero indiretto?”. […] Esso è semplicemente l’immersione dell’autore nell’animo del suo personaggio, e quindi l’adozione, da parte dell’autore, non solo della psicologia del suo personaggio, ma anche della sua lingua. […] Insomma è la “soggettiva libera indiretta” a instaurare una possibile tradizione di “lingua tecnica della poesia” nel cinema (PASOLINI, 2003, p. 175-176, 179).
Ritroviamo il concetto di spostamento, nella riflessione di Barthes sul rapporto tra testo di signifiance e lingua. La scrittura letteraria e in generale artistica consiste nel non farsi trovare nel posto del soggetto, là dove si presume che esso in quanto tale, nella sua identità, nella sua appartenenza, si trovi. Questo deplassement rende possibile dire ciò che per la scrittura ammaestrata, addestrata a comunicare è “indicibile”. A una scrittura-fattorino, portalettere (facteur, DERRIDA, 1975) si interpone, interferendo, una scrittura di ricerca.
Assecondare il “carattere fascista della lingua” (BARTHES, 1977) rispondendo alle sue interrogazioni implicite secondo il suo ordinamento di cose e rapporti, è accettare la logica dell’interrogare e del voler sentire, dell’ascolto prescritto, “applicato” (BARTHES & HAVAS, 1977). Altra cosa è l’ascolto come “lasciar manifestare”, “che si apre a tutte le forme di polisemia, di sovradeterminazione, di sovrapposizione, disgregando la Legge che prescrive l’ascolto diretto, univoco” (ivi, p. 989). Soprattutto nel settore dell’arte ontemporanea, aggiungono Barthes e Havas, “ciò che viene ascoltato è la dispersione stessa, il gioco di specchi dei significanti”, che “è la significanza, distinta dalla significazione” (ivi, p. 990). Per quanto concerne la musica, l’esempio in Barthes e Havas riguarda Cage, dove, tra l’altro, le coup de dés (DELEUZE,1967) è preso alla lettera e messo in pratica. Quello di Cage è un lavoro che si lascia distrarre, che si lascia disturbare, che si lascia interrompere dalla vita, esso è, infatti, principalmente ascolto. Scrive John Cage:
Quando mi accorgo che lo squillo del telefono mi disturba e che non sto prestando tutta la mia attenzione a chi ha chiamato, allora penso che non sto facendo bene il mio lavoro come dovrei, proprio perché bisogna accettare di essere interrotti. Ciò che voglio dire è che una cosa è fatta bene quando il doverla interrompere non ci irrita. Ho notato che molta gente che si protegge da queste interruzioni mette in atto una separazione tra il lavoro e la vita. [...] Io trovo che sia un’ottima cosa che la vita ci interrompa (CAGE, 1987, p. 50).
L’ascolto come “lasciar manifestare” mette la lingua in “variazione continua”, permette di “essere bilingui, ma in una sola lingua, in una lingua unica… Essere uno straniero, ma nella propria lingua… Balbettare, ma essendo balbuziente nel linguaggio stesso, e non soltanto nella parola…” (DELEUZE in: BENE & DELEUZE, 1979, p. 79). Deleuze, analizzando lo sfasamento del play-back operato da Bene, scrive:
Se diciamo, per esempio: lo giuro, l’enunciato non è tuttavia lo stesso a seconda che lo si dica davanti ad un tribunale, in una scena d’amore o in una situazione d’infanzia. e questa variazione non intacca soltanto la situazione esterna, non soltanto l’intonazione fisica, ma intacca all’interno il significato, la sintassi e i fonemi. Si fa dunque in modo che un enunciato attraversi tutte le variabili che possono intaccarlo nel più breve spazio di tempo. L’enunciato, allora, non sarà altro che la somma delle sue proprie variazioni, che lo fanno sfuggire ad ogni apparato di potere capace di fissarlo, e che gli fanno schivare ogni costanza. Si costruirà così il “continuum” di Lo giuro. [...] Mettere la lingua e la parola in variazione continua. Da cui l’utilizzazione molto originale del play-back in Carmelo Bene, dato che il play-back assicura l’ampiezza delle variazioni e conferisce loro alcune regole (ivi, p. 96).
Ciò comporta un movimento di extralocalizzazione (BACHTIN, 19795), di “deteriolizzazione” (Deleuze), in cui la “propria” stessa lingua è avvertita in tutta la sua estraneità, come “lingua dell’altro”, e senza che risultino contraddittorie le due proposizioni (Derrida, 2004, p. 14): – Non si parla che una solo lingua. – Non si parla mai una sola lingua.
Questa doppia formula è considerata da Derrida sia la legge di ciò che chiamiamo traduzione sia la legge stessa del parlare come traduzione. Che parlare sia traduzione risulta dal parlare stesso e dal comprendere e non solo dall’interpretare e dire in altre parole.
Ciò che accomuna traduttore e scrittore è il fatto che entrambi non usano la lingua direttamente, non parlano a nome proprio. Essi, dice Derrida (ibid.), vivono la verità del rapporto con la lingua e con la parola, perché, ciascuno dovrebbe poter dire: “non ho che una sola lingua e (ora, ormai, permanentemente) non è la mia”.
La traduzione non è semplicemente rapporto tra due lingue, ma anche e soprattutto tra due serie singolari di relazioni, tra due testi. E non è trascrizione. Artaud traducendo Carroll lo riscrive. Ma anche il testo di Carroll, stando a quanto osserva Derrida, è una traduzione; a dire di Artaud, una cattiva traduzione, perché le cose che dice e le parole che usa non riescono ad affrancarsi dalla rappresentazione imposta dalla lingua con la sua grammatica e con il suo ordine del discorso. E quindi ad Artaud quello di Carroll sembra la copia sbiadita del testo da lui ha riscritto traducendolo. Di parere non diverso si dichiara Deleuze (1993) che nel saggio del ’67 si era già riferito a Carroll per spiegare la nozione di senso come comprensivo del non-senso, e che (in DELEUZE, 1993, p. 37-38), a proposito di Carroll, parla di “sbirciatina nello specchio tenendo lontano il doppio intravisto”. Anche nei disegni Artaud traduce. La sua opera si costruisce nell’intersezione di scrittura letteraria, teatro e pittura. Derrida (1986) dedica particolare attenzione al rapporto tra queste tre serie diverse di scrittura, come pure al rapporto in Artaud tra disegno e supporto lacerato e corroso, che egli chiama “soggettile”, considerandolo l’elemento caratterizzante in quanto testimonianza di una “operazione crudele” contro la rappresentazione e la lingua.
Il testo complesso, il testo di scrittura, “lavora la lingua”, come dice Barthes (“Theorie du texte” 1998: 232) a proposito del testo letterario, decostruendo (Derrida) la lingua di comunicazione, di rappresentazione, rendendosi in un’altra lingua, escogitando “una lingua nella lingua” (Deleuze). La lingua è ingombrata di stereotipi, allo stesso modo in cui lo è la superficie della tela su cui dipingere, descritta da Deleuze (1981, p. 156-166) come tutt’altro che bianca. “È per questo che dico che la pittura incorpora una catastrofe: il quadro esce da una catastrofe ottica, che resta presente sul quadro stesso” (“DELEUZE, 1999, p. 109-110).
La raffigurazione dei testi complessi o secondari, dei testi artistici, non è fuori dalla realtà, ma fuori dalla visione ufficiale, ordinaria, della realtà. La visione del testo artistico consiste nel “farsi un’ottica” (P. Cézanne) altra, rispetto a quella del codice di riconoscibilità e di conferma. La visione artistica si orienta verso un affrancamento dal visto, dal vissuto, dal fatto, dal precostruito (rinvio a L. PONZIO 2002, 2004, 2010). Derrida (1981, p. 245 e ss.) ironizza sull’interpretazione di Le scarpe di Van Gogh tramite l’inferenza: Van Gogh ha dipinto delle scarpe da contadino; il quadro è firmato “Vincent 87”; a quell’epoca, Van Gogh era a Parigi, lontano dai contadini; dunque le scarpe da contadino erano le sue. Sicché, per metonimia, il dipinto è un autoritratto. Così l’interpretazione del testo, pittorico o letterario, diventa identificazione, attribuzione, restituzione, come accade spesso nella “critica” dei critici.
Per la visione di pittore-scrittore, distinta dallo sguardo ordinario, non è questione di vista. Per la visione artistica, al di la dell’ovvio, del visibile, ha poca importanza avere la vista ridotta. Anzi, dice Derrida (1990, p. 12), “Il disegno, se non il disegnatore, è cieco. In quanto tale e nel momento in cui si compie, l’operazione del disegnatore avrebbe qualcosa a che vedere con l’accecamento”. E allora con che occhi vedere? Una risposta ce la suggerisce Klee (1984, p. 191): “Compito scherzoso: ritrai te stesso senza specchio, senza le illazioni che ricaveresti dalla tua immagine riflessa in uno specchio. Esattamente come ti vedi, con l’occhio della mente, senza guardarti. Come nota Derrida (1990, p. 62-63), “l’invenzione del tratto non segue, non si regola su ciò che è presentemente visibile, e che sarebbe posto là davanti a me come un tema. Anche se […] il modello è presentemente di fronte all’artista, […] il tratto sfugge al campo visivo”. Anche perché “non appartiene all’ordine dello spettacolo, dell’oggettività spettacolare”. Proust (1954, p. 4-5) chiude gli occhi per lasciarsi invadere da un ricordo rimasto legato a un oggetto, a una sensazione, e lasciarsi arricchire da un’impressione passata, accessibile solo se conservata nella memoria, perché, nel momento in cui è vissuta, egli dice, si presenta mescolata a sensazioni che la opprimono”.
La rinuncia alla figura non affranca dalla rappresentazione. Ciò è chiaro a Cézanne, osserva Deleuze (1981), come a Francis Bacon. Bacon, per sfuggire alla rappresentazione, non rinuncia alla figura ma oppone il “figurale” al figurativo. Per neutralizzare l’illustrazione, il figurativo, Bacon isola le figure in un cerchio o in un parallelepipedo e tiene separati i pannelli del trittico in modo da impedire che si costituisca tra di essi un nesso narrativo (v. Ivi, p. 14-15). Una cosa analoga fa Barthes con lo stesso intento mettendo in ordine alfabetico le “figure” del “discorso amoroso”.
Possimo tornare alla nozione di “grado zero” sopra appena accennata ma “senza la quale, diceva Deleuze (1967), pas de structuralisme. Barthes comincia a occuparsene nel libro del 1953 Il grado zero della scrittura (1972) e vi ritorna in uno dei suoi ultimi corsi al Collége de France, (1977-78) intitolato Il neutro. Il neutro è in una scrittura (non solo scrittura letteraria: v. PONZIO, 2010b) non ancora rappresa e presa nella lettera e alla lettera. Per dare un esempio di “scrittura neutra”, Barthes nel ‘53 si rifaceva a quei linguisti che, tra due polarità, individuano un terzo termine, detto “neutro” o “termine zero” (BARTHES, 1972, p. 53). Nel corso del 1977-78 (2002b) il neutro è indicato da Barthes come ciò che elude il paradigma, l’opposizione fra due astrazioni quale condizione della loro differenza, e tende invece al riconoscimento di un’alterità non relativa, una differenza non indifferente, non individuale, ma singolare. Il neutro, al paradigma imposto dalla lingua in quanto assertiva e al suo aut-aut, risponde, potremmo dire con il copista di Melville, I prefer not to (v. DELEUZE, “Bartleby, la formula”, 1993). Il neutro sospende la struttura attributiva del parlare ordinario: “questa cosa è la tal cosa”, e, come Magritte, dichiara “ceci n’est pas une pipe”6. Si sottrae all’ideosfera (v. BARTHES, 2002b, p. 22), al discorso-legge non percepito come tale perché doxa, discorso ovvio, e dunque funzionale al potere e all’arroganza come volontà di potere7, alla riduzione della Storia in termini di opposizioni, conflitti, schieramenti (la “frenesia occidentale”). La scrittura è movimento di fuoriuscita dalla ideosfera e dalla logica assemblativa del concetto che cancella le differenze singolari. Una via dì uscita è la metafora (ivi, p. 201) – che Bachtin considera una “forma del tacere” e Peirce espressione dell’“iconicità” –, ma non come figura retorica ma perché procede per affinità e lascia nella loro differenza i termini a confronto (nella bibliografia delle lezioni di Barthes c’è anche Vico).
L’interesse di Barthes per la singolarità nella sua unicità e incomparabilità, lo conduce alla domanda “bizzarra” del saggio sulla fotografia, La camera chiara (BARTHES, 1980, p. 10): perché mai non potrebbe esserci una scienza del singolare, una mathesis singularis (e non più universalis)? Qui Barthes, attraverso la ricerca della fotografia di sua madre in cui possa ritrovarla proprio com’era nel rapporto con lui, riesce a mostrare come, persino il testo fotografico possa affrancarsi dalla sua funzione trascrittiva, identificativa e dal carattere indicale dell’impronta espostandosi nella direzione della scrittura. Qui la fotografia è fuori soggetto, fuori dall’orizzonte del soggetto, dell’esperienza, della conoscenza, dello sguardo, della possibilità di vedere, perché, si tratta della fotografia della madre a dodici anni.
Questa attenzione (come in: DELEUZE, 1967) alla “singolarità”, alla differenza extraindividuale, non precostituita rispetto “rapporti differenziali”, perdura e orienta la ricerca di Barthes negli ultimi due corsi al Collège de France sulla Preparazione del romanzo. Barthes fa dipendere l’unicità e insostituibilità, che non è mai in generale ma sempre per qualcuno, da ciò che egli chiama “nuance” (sfumatura). Ciascuna singolarità si distingue dal generale per una nuance. La nuance non ha nulla a che fare col rapporto soggetto-oggetto o con qualche particolare modo di vedere le cose: essa appartiene all’incontro ed è la differenza da cui nasce il desiderio di scrittura, la scoperta di una nuova pratica di scrittura, in un inscindibile collegamento con il desiderio di una vita nuova.
Chiediamoci a questo punto: in questi tre autori, Barthes, Deleuze, Derrida, così come essi hanno sviluppato la loro ricerca, ma, in effetti, come qui è stata presentata privilegiandone alcuni aspetti per me di maggiore interesse, è (ancora) “riconoscibile” lo strutturalismo? In considerazione delle nozioni o parole chiave secondo cui Deleuze nel 1967 ne stabiliva i criteri, sembrerebbe di sì. L’ho indicato come “strutturalismo critico”, potrei anche dire “dissidente”, per la messa in discussione, che lo caratterizza, di ciò che con Foucault possiamo chiamare l’“ordine del discorso”. Se poi invece si ritiene che non è riconoscibile come strutturalismo, ricorderò di nuovo l’avvertimento dello stesso Deleuze: “è bene che la domanda ‘da che cosa si riconosce lo strutturalismo?’ conduca all’affemazione di qualcosa che non è riconoscibile o identificabile”.
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SOBRE O AUTOR
LUCIANO PONZIO ensina Semiotica del Testo e Semiotica del Cinema no Dipartimento di Studi Umanistici da Facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Beni Culturali da Università del Salento, Lecce. Estão entre as suas publicações: Icona e raffigurazione. Bachtin, Malevič, Chagall (2016), traduzida para o português em Ícone e afiguração: Bakhtin, Malevitch, Chagall (São Carlos: Pedro & João Editores, 2019); Visioni del testo (2002, 4. ed. 2010), nova edição revista e ampliada (2016), traduzida para o português em Visões do Texto (São Carlos: Pedro & João Editores, 2017); Lo squarcio di Kazimir Malevič (2004); Differimentismo (2005); Differimenti. Annotazioni per un nuovo spostamento artistico (2005); L’iconauta e l’artesto. Configurazioni dellascrittura iconica (2010); Roman Jakobson e i fondamenti della semiotica (2015); Artesti e Cartografie. Due lustri di scritture senza dimora, 2005-2015 (2016); L’immagine e la parola nell’arte tra letterarietà e raffigurazione (2017). Em 2019 publicou a tradução do russo, em organização sua, da obra de J. Lotman, Semiotica del cinema e lineamenti di cine-estetica.
Recevuto in: 29.04.2020
Accettato il: 04.06.2020
1 In La struttura assente (ECO, 1968, p. 253 e ss.) Eco distingue uno strutturalismo “generico” e uno strutturalismo non generico, a sua volta distinguibile in “metodologico” e in “ontologico” Quest’ultimo conferisce a “struttura” un valore “feticistico”. Lo strutturalismo generico, rinvenibile nel pensiero occidentale già da Aristotele, si riferisce a oggetti strutturati, e dunque a “forme” a “organismi” anziché a modelli strutturali trasponibili, come avviene invece in quello non generico, dove la struttura è schema, modello, sistema di differenze concernente fenomeni di ordine diverso. Nello strutturalismo ontologico il modello strutturale da procedimento operativo, come lo è, per esempio, in Hjelmslev (v. Ivi, p. 286), viene fatto passare per struttura oggettiva.
2 Eco (1968, p. 278-284) riconosce quest’“altro strutturalismo” nel contributo di Derrida (1967a) alla critica dello “strutturalismo applicato” che usa l’opera letteraria a conferma di un metodo prefabbricato fino ad espungere (v. “Forza e significazione” (all’inizio di DERRIDA, 1967a), come accidentali e aberranti episodi e personaggi non collimanti con esso.
3 In riferimento al testo in questo senso e in questa prospettiva, ho proposto la nozione di artesto (v. L. PONZIO, 2010a).
4 In riferimento alla scrittura letteraria Bachtin impiega il termine “cronotopo” per indicare “l’interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali dei quali la letteratura si è impadronita artisticamente (…). A noi interessa il significato che questo termine ha nella teoria della relatività e lo trasferiamo nella teoria della letteratura quasi come una metafora (quasi ma non del tutto” (“Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo”, in: BACHTIN, 1979, p. 231).
5 “L’artista è appunto colui che sa situare la sua attività fuori dalla vita, colui che non soltanto dall’interno partecipa alla vita (pratica, sociale, politica, morale, religiosa) e dall’interno la comprende, ma che anche la ama dal di fuori, là dove essa esiste per sé, dove essa è rivolta fuori di sé e ha bisogno di un’attività extralocalizzata e avulsa dal senso. La divinità dell’artista sta nella sua appartenenza a un’extralocalità suprema”, in Michail M. Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, 1979, trad. it. di C. Janovič, Torino, Einaudi, 1988, p. 172.
6 V. su questo dipinto di Magritte, il saggio di Foucault (1973) dallo stesso titolo.
7 Sul potere visto anche attraverso la letteratura (Defoe, Woolf, Joyce), v. Derrida, 2009 e 2010.
Movimento-Revista de Educação, Niterói, ano 7, n.12, p.370-390, jan./abr. 2020.